Milano 1990
Il vetro dell’auto era annebbiato. Davanti vedeva una selva meccanica indistinta, schermata da una cortina grigia, e luminescenze rosse e gialle. Il biancore del gas dei tubi di scappamento irradiava davanti al cofano una nuvolaglia sparsa. Martino era al volante immerso in pensieri che andavano e venivano. Non aveva ancora acceso il riscaldamento e anche il suo respiro si materializzava in volute di vapore.
La volata della sua Audi a centottanta all’ora, sull’autostrada da Aosta a Milano l’aveva costretto a una concentrazione di testa e muscoli che contrastava con la rilassatezza forzata di quel momento: l’auto inchiodata al terzo rosso. Il traffico era quasi fermo. Diede un’occhiata al Rolex che aveva agganciato sopra il polsino della camicia. Alle quattro del pomeriggio, a Milano, e nel resto di quella piccola parte di mondo che era l’Europa, era già buio.
Pensava al suo articolo in seconda pagina: un inserto a due colonne che avrebbe prodotto un effetto dirompente sulla politica interna ed estera. O almeno quello era ciò che si aspettava. Di certo il titolista ci era andato giù pesante. Premette il pulsante del circuito d’aria calda all’interno dell’abitacolo e rivolse verso il basso lo specchietto retrovisore. Calcolò che se quel giorno non fosse stato costretto a spostarsi con l’auto, con due sole fermate della metro sarebbe già arrivato alla sede del giornale. Era un mercoledì. Alla riunione di redazione si sarebbe presentato il nuovo direttore. Non sarebbe stato ammissibile un suo ritardo. Anche se lui, il nuovo Direttore, lo aveva già incontrato, quando era stato convocato nel suo studio nei giorni del passaggio di consegne. Dopo brevi convenevoli era andato subito al sodo.
“Martino, proprio perché ti stimo, vorrei lavorare con te su una materia che scotta. Ci costerà fatica e rischi non da poco, ma la posta in gioco è alta: potremmo agevolare le indagini che sono in corso.”
“Di che cosa si tratta?”
“Traffici di rifiuti tossici.”
Martino deglutì a fatica e il suo sguardo non poté tradire l’interesse unito a una buona dose di apprensione.
“Prima di essere scelto per questo incarico, come sai, ero capo redattore agli esteri”.
Non era notizia. Come non lo era il “valzer dei direttori” che, ad ogni giro, portava nuove gerarchie e, qualche volta, inchieste che il nuovo venuto si portava dalla vecchia redazione, come un’incompiuta, come una dote.
“Avevo appena scoperto una holding che controlla un gruppo di Società – proseguì il direttore. – Si occupa dell’inabissamento in mare di rifiuti radioattivi sia in Italia che all’estero. Una delle Società, quella italiana, è molto attiva nel procurarsi clienti all’estero; attualmente, soprattutto in territorio svizzero. Smaltisce nei paesi nordici. Bisognerebbe intanto venire a saperne di più sui documenti e sui progetti tecnici legati a quel progetto e anche sui documenti e sui progetti che riguardano il trasporto nei territori del corno d’Africa. Te ne vuoi occupare tu?”
Martino era trasalito. Ma tenne l’adrenalina tutta dentro di sé. Era stato laconico.
“Quale sarebbe il mio compito?”
“Innanzitutto verificare la rete dei collegamenti delle Società controllate dalla holding sia in Italia che all’estero, tenere d’occhio i loro movimenti, i loro referenti”.
“Ok. Sarà fatto. Hai del materiale su cui possa documentarmi da subito?”
Il direttore gli mise davanti alcuni dossier, uno riguardava gli atti delle commissioni parlamentari d’inchiesta sui traffici internazionali di rifiuti tossici nel corso dell’ultimo decennio, un altro sintetizzava vari studi sullo stato degli oceani e dei mari. Ironia della sorte, proprio dalla sede operativa su cui s’erano maggiormente appuntati i sospetti del direttore, era stato divulgato il rapporto scientifico dal titolo: ‘Studi finalizzati alla protezione e alla ricerca ambientale’.
Martino aveva raccolto i dossier e stava per accomiatarsi; il Direttore gli
fece cenno di aspettare ancora un attimo.
“Non ti sto dando questo incarico come cronista. Te lo sto dando come nuovo capo della sezione Esteri. Congratulazioni”.
“Farò del mio meglio”, aveva detto Martino; e per quel giorno il discorso fu chiuso.
Quella mattina, nello studio del notaio Villemet, lui e Margaret avevano concluso la vendita dello chalet, proprietà comune ai tempi del loro matrimonio.
Prima del viaggio ad Aosta era stato dal direttore della Banca Popolare; prima ancora, per l’ennesima volta, nello studio dell’avvocato Pancaldi.
Con la sua ex-moglie non restava altro da dividere. Quella vendita concludeva la lunga liquidazione dei loro affari comuni. Durante il viaggio i loro sguardi avevano seguito traiettorie del tutto asimmetriche. Solo in un’occasione Martino aveva incrociato i suoi occhi chiari e ne aveva colto un lampo d’ironia. Dopo, la solita distanza apatica, indecifrabile. Era stato quando lei aveva fatto un’osservazione sul suo aspetto.
“Ti sei fatto crescere la barba? Non male. Sembri più maturo. Ti fa un’aria tra l’intellettuale e lo scapigliato. Un cavaliere della Tavola Rotonda”.
Lui le aveva chiesto del suo lavoro, così, tanto per continuare la conversazione
su un argomento che non riguardasse la sua persona. Margaret aveva aperto uno studio anche a Milano e aveva soggiunto che l’Architetto, spesso in giro per il mondo, le commissionava lavori impegnativi: entro pochi mesi l’avrebbe coinvolta in un progetto comune, a Parigi.
In quel tragitto d’autostrada non avevano avuto altri oggetti importanti di conversazione. Le poche domande scontate e le altrettanto banali risposte, erano state intervallate da lunghi silenzi. L’aveva fatta scendere nei pressi della Stazione Centrale ed era rimasto a osservarla sino a che non era scomparsa alla sua vista. Trascinava il suo trolley di grande pregio mentre
la borsa a tracolla, griffata per un valore pari se non superiore, ondeggiava sul fianco sinistro del Burberry bianco. Pareva si portasse dietro un carico pesante, ma in realtà lui sapeva che il loro passato comune era stato fatto pressoché di nulla. E allora perché quegli anni sprecati? Se l’era già chiesto altre volte. Dentro a quel trolley e dentro a quel borsone le sarebbe rimasto di lui solo un ricordo sbiadito, una speranza velleitaria e poco meditata: il desiderio mancato di un figlio.
Diede un’occhiata allo specchietto retrovisore, accese la luce e focalizzò i suoi stessi occhi: iridi nerissime che risaltavano nel biancore azzurrato della sclera. L’orbita oculare delimitata da solchi appena marcati e da rughe sottili, le ciglia lunghe e le sopracciglia folte e arcuate. Si stupì del suo stesso sguardo che sembrava giungere da lontananze siderali e frantumare il rettangolo di vetro. Qualche altro metro, poi il semaforo tornò rosso e lui inchiodò ancora.
Continua...